Nell’Italia che invecchia le nude cifre parlano, come noto, di 1,3 milioni di malati con varie forme di demenza. Poco o niente, invece, si sa dei caregiver, dell’esercito di ormai 4 milioni di persone, per la quasi totalità, a parte i professionisti, senza alcuna cultura specifica: volontari, badanti (retribuite) di infinite nazionalità, ma soprattutto familiari che, più o meno a tempo pieno, per amore o per obbligo parentale, si dedicano a un incarico difficile, penoso, spesso ingrato e comunque sempre gratuito.
Il dato numerico è dunque già di per sé impietoso, ma ciò che le cifre non rappresentano sono le imprevedibili dinamiche della relazione d’aiuto, l’ambiguo e controverso rapporto tra caregiver e assistito. Rinunce, sacrifici, atti di generosità ed eroismi di tanti possono infatti accompagnarsi a sordi conflitti, torbidi rancori, nonché a episodi tutt’altro che rari di abusi, maltrattamenti e violenze che la stampa periodicamente riporta.
Su questi due aspetti del pianeta demenze (aumento vertiginoso dei malati e fragilità dell’assistenza), ha dato battaglia il Convegno Nazionale sui Centri Diurni Alzheimer conclusosi ieri a Pistoia. Da un lato, il professor Giulio Masotti, presidente onorario della Società di Geriatria e Gerontologia, ha chiamato in causa politica e istituzioni affinché si inizi davvero a fronteggiare la bomba sanitaria anche con la prevenzione. Sull’altro versante – gli ha fatto eco lo psichiatra Leo Nahon, primario al milanese Ospedale di Niguarda – occorre andare in aiuto di chi dà aiuto, ossia offrire ai caregiver preparazione e supporto, anche minimi, che consentano di affrontare con più consapevolezza l’impegnativo rapporto col malato.
La qualità del caregiving è tra l’altro uno dei problemi meno noti e indagati. “Ma è certo”, ha spiegato Nahon in uno dei punti centrali della sua vasta relazione, “che tra aiutare e maltrattare corre psichicamente una linea di confine sottilissima. Nella sofferenza altrui c’è purtroppo un aspetto tirannico che scatena reazioni quasi universali nei prestatori d’aiuto. Naturalmente ciò dipende molto dalle singole personalità e dal loro incontro, ma la mescola di sentimenti ambivalenti che colpisce il prestatore d’aiuto è pressoché simmetrica alla mescola di angoscia e aggressività che la persona fragile, soprattutto in psicogeriatria, trasmette”.
Lo stesso Freud osservava del resto che nei malati, soprattutto psichici e soprattutto depressi e bisognosi, ‘ogni lamento è un’accusa’. Il portatore di un bisogno patologico, ha commentato il professor Nahon, “è in effetti dotato di un tale potere attrattivo e di richiesta da indurre spesso reazioni di rifiuto e negazione uguali e contrarie, desideri di rivalsa che sconfinano in maltrattamenti”.
Un caregiver capace di resistere a questi impulsi e di stabilire con il proprio assistito un sano rapporto di empatia deve dunque avere non soltanto le necessarie nozioni psico-mediche, ma anche doti particolari di umanità e comprensione. Non basta la vocazione. Né basta lo stato di necessità, il doverlo fare.
“Il lavoro del caregiver è talmente impegnativo”, ha detto il professore, “da richiedere come prima cosa a chi lo fa uno sforzo di comprensione enorme. Occorre diventare consapevoli di avere dentro di sé parte della fragilità del malato. E questo vale, anche se in misura diversa, per professionisti, volontari e familiari. Per questo motivo occorre pensare a come sostenere chi si dedica all’aiuto degli altri. Solo una dimensione collettiva in cui esista un gruppo che si fa carico delle difficoltà dei prestatori d’aiuto potrà garantire una sopravvivenza psicologica adeguata”.