Il morbo di Parkinson è una degenerazione cronica e progressiva che interessa prevalentemente una piccola parte del sistema nervoso centrale chiamata sostanza nera, dove viene prodotta la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per un controllo efficace e accurato dei movimenti di tutto il corpo. Colpisce raramente prima dei 50 anni di età ed è caratterizzata da tremore, rigidità e difficoltà nei movimenti. Sembra colpire, in generale, più il sesso maschile rispetto a quello femminile e la sua incidenza nei paesi occidentali è di circa 360 ogni 100 mila persone. In Europa, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stima che ne sia colpito lo 0,5 per cento della popolazione, per un totale di circa un milione di persone. In Italia i malati sono circa 220 mila, con una media di 1.200 nuovi casi l’anno.
Tale malattia deve il suo nome al medico inglese James Parkinson, che nel 1817 ne fece la prima dettagliata descrizione clinica definendola paralisi agitante.
Cause
I motivi per cui si verifica un improvviso blocco nella produzione di dopamina da parte delle cellule dei gangli posti alla base del cervello (nucleo lenticolare, locus niger) sono ancora sconosciuti, anche se sono state avanzate varie ipotesi: il Parkinson può sorgere dopo un’infezione virale sconosciuta (specie nei casi dei giovani pazienti), dopo un trauma alla testa, l’esposizione a sostanze tossiche ambientali o a causa dell’arteriosclerosi cerebrale, soprattutto nei pazienti più anziani. Una recentissima ricerca condotta dall’Istituto per il Parkinson di Milano, pubblicata sulla rivista scientifica Neurology,afferma che a correre il rischio di contrarre questa patologia dopo i cinquanta anni, sarebbero meccanici, verniciatori, restauratori di mobili e tutti coloro che si trovino a contatto con idrocarburi solventi, resina, pesticidi e così via.
I casi in cui non si riesce a trovare con esattezza la causa responsabile della malattia vengono definiti “parkinsoniani idiomatici”. Comunque si tratta sempre di un disturbo del sistema nervoso centrale caratterizzato sostanzialmente dalla degenerazione dei neuroni produttori di dopamina. Quando questi si riducono di oltre il 70 per cento, il sistema non è più in grado di stimolare i recettori situati nella zona del cervello detta “striato” e compaiono i classici sintomi della malattia. La morte dei neuroni produttori di dopamina non è ancora spiegata ed è tuttora argomento di ricerca.
Sintomi
Nelle fasi iniziali della malattia, i sintomi possono variare da persona a persona, ma, il sintomo caratteristico del morbo di Parkinson è il tremore della mano, che si manifesta generalmente a riposo ed è assente quando invece la mano viene utilizzata. Il tremore, associato a rigidità e difficoltà nei movimenti, inizia generalmente alla mano destra o al piede destro, può scomparire da un arto e colpirne un altro, finché, estendendosi progressivamente, nel volgere di due anni interessa entrambi i lati del corpo, facendo assumere alla persona un’andatura caratteristica: il tronco è inclinato in avanti mentre la colonna vertebrale, le anche, le ginocchia e le caviglie restano leggermente piegate. La scrittura diviene caratteristicamente tremante e con caratteri più piccoli (micrografia), la voce diviene flebile e qualche volta rauca, cambia l’espressione del volto dovuta alla riduzione della mimica facciale. Inoltre possono manifestarsi perdita involontaria di saliva, particolarmente di notte, ansia o depressione. Con il passare del tempo la situazione degenera per cui si resta immobili a letto. Il periodo entro il quale tutto questo processo si compie, varia da persona a persona, ma generalmente resta compreso tra i 10 ed i 20 anni.
Terapia
Delle molte cure mediche finora provate, tendenti almeno ad attenuare i gravi sintomi, specie tremore e rigidità, solo alcune si sono rivelate capaci di ottenere miglioramenti, ma quasi sempre modesti e temporanei.
La levo-dopa (L-Dopa) è stata per anni il farmaco più utilizzato nella cura del Parkinson. Essa entra nei neuroni, che la trasformano in dopamina e la rilasciano all’esterno, dove va ad aggiungersi al neurotrasmettitore prodotto in quantità insufficiente dall’organismo. Questa soluzione è però temporanea: dopo alcuni anni (da 3 a 10), infatti, coloro che sono sottoposti a questo trattamento iniziano ad accusare una riduzione della durata dell’effetto farmacologico, detta indebolimento di fine dose, in quanto sembrerebbe verificarsi una specie di assuefazione al farmaco. Inoltre, la levodopa sintetica non è perfetta come la dopamina naturale e determina fastidiosi effetti collaterali come nausea, ipotensione e incoordinazione nei movimenti. Negli ultimi quattro-cinque anni, il trattamento di questa patologia ha fatto comunque dei notevoli passi avanti, con l’introduzione dei nuovi dopaminoagonisti, considerati la più grande scoperta neurofarmacologica dell’ultimo decennio. Questa terapia, infatti, riscuote un notevole successo sulla riduzione del tremore e sulla discinesia, dando la possibilità allo specialista di rimandare di cinque anni il ricorso alla levodopa, che diventa così un farmaco secondario, evitando così di incorrere anzitempo negli effetti collaterali che essa comporta. Un esempio di questa categoria di farmaci è il pramipexolo, indicato anche per combattere la depressione che si manifesta nella maggioranza dei pazienti affetti dalla patologia.
Sicuramente di secondo piano rispetto ai suddetti farmaci il ruolo curativo degli inibitori delle monoaminossidasi B (Imao-B), degli anticolinergici e dell’amantadina. Oltre alla terapia farmacologica, è stata tentata anche una via chirurgica al trattamento della malattia di Parkinson con la terapia chirurgica in stereotassi e l’autotrapianto cerebrale di cellule capaci di produrre dopamina. Gli interventi effettuati con la tecnica stereotassica tendevano a distruggere il piccolo agglomerato di cellule nervose mal funzionanti (talamolisi), ma questa tecnica aveva un esito favorevole solo sul controllo del tremore e non si poteva applicare da ambedue i lati per la comparsa di gravi effetti collaterali. Recentemente è stata messa a punto una tecnica che non comporta più la distruzione delle cellule nervose mal funzionanti, ma la loro stimolazione elettrica a bassa intensità e alta frequenza (neurostimolazione) attraverso l’impianto diretto di elettrodi nel cervello. Questo tipo di intervento, oltre che meno invasivo e quasi privo di effetti collaterali, si è mostrato idoneo sia al controllo dei sintomi della malattia sia agli effetti collaterali determinati dai farmaci. In alcuni centri, intanto, continua la sperimentazione del trapianto di cellule nervose dopaminergiche nel cervello dei pazienti parkinsoniani, ancora in fase di perfezionamento per motivi tecnici ed etici.