L’Italia invecchia, e non solo perché si festeggiano 150 anni dall’Unità. L’età media della popolazione si sta alzando progressivamente e oggi, secondo i dati Istat, gli over 65 sono oltre 12 milioni, circa il 20% della popolazione, mentre gli over 80 sono ben 3 milioni. Numeri destinati a crescere – nel 2050 la percentuale di persone con oltre 65 anni potrebbe arrivare al 34% – come è in rapida crescita la prevalenza delle malattie legate all’età: già oggi un esercito di 800 mila persone affette da demenze di vario tipo preme alle porte dell’assistenza socio-sanitaria e il loro numero raddoppierà entro il 2050.
Nel nostro Paese oltre 600 mila persone sono affette dalla malattia di Alzheimer, la più diffusa tra le demenze: persone spesso molto anziane, con un’età media di 78 anni, diagnosticate in media due anni dopo l’insorgere dei primi sintomi. Segno, questo, di una ritardata capacità del sistema sanitario e dei suoi attori (medici di famiglia, specialisti etc.) ad arrivare a una diagnosi, come di un rifiuto delle famiglie a riconoscere e ad accettare la condizione del loro congiunto, nella consapevolezza che l’Alzheimer avrà un impatto drammatico sulla vita del paziente e della sua famiglia.
L’Alzheimer è sempre più una malattia familiare, come conferma lo Studio Axept, un importante progetto europeo promosso da Novartis, che ha coinvolto oltre 2.000 pazienti e relativi caregiver, metà dei quali italiani.
I dati preliminari emersi dallo Studio Axept sono stati presentati nel corso dell’XI Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria appena conclusosi a Gardone Riviera. Obiettivo primario dello studio è quello di valutare il rapporto tra aderenza alla terapia e soddisfazione/stress del caregiver.
Lo Studio Axept conferma che le famiglie si trovano ad affrontare da sole questo peso sociale, psicologico ed economico, anche per gli aspetti più critici come la gestione della terapia. Il sostegno pubblico è in ritardo, con la malattia ancora considerata come il prezzo da pagare alla longevità, ma non una vera e propria patologia da trattare con tutte le risorse possibili, mediche, farmacologiche e non farmacologiche.
In Italia, agli oltre 600 mila pazienti con Alzheimer corrispondono almeno altrettanti caregiver, che svolgono un ruolo cruciale, essendo impegnati ogni giorno nell’assistenza e coinvolti nel 70% della gestione dell’attività terapeutica, in prima analisi quella farmacologica. In oltre il 95% dei casi a svolgere il ruolo di caregiver è un familiare del malato e in un caso su due un figlio o più spesso una figlia: il 72% dei caregiver è di sesso femminile.
Quello del caregiver è dunque un lavoro a tempo pieno: il familiare assiste il paziente sin dall’esordio della malattia e trascorre con lui circa 12 ore al giorno. “I dati statistici della Linea Verde Alzheimer (800 679679) dell’AIMA offrono uno spaccato drammatico della vita delle famiglie sulle quali, senza competenze e senza strumenti, è riversata tutta la responsabilità della cura del paziente” – afferma Patrizia Spadin, Presidente dell’AIMA – Associazione Italiana Malattia di Alzheimer. “In questo quadro, la gestione della terapia ha un peso rilevante nella routine quotidiana del caregiver che non ha gli strumenti per un approccio “competente” all’uso dei farmaci. L’unico dato che il caregiver può rilevare è quello relativo al benessere del paziente, ma al di là di questo, che la terapia sia efficace o meno, il caregiver non ha nessuno a cui rivolgersi, essendo le UVA oberate di lavoro e il medico di famiglia non sufficientemente competente”.
La necessità di gestire la terapia determina un lavoro aggiuntivo per il caregiver: una delle strategie per alleviare il peso dell’assistenza passa anche per la disponibilità di farmaci più maneggevoli, che migliorino l’aderenza alla terapia del paziente. Infatti i dati preliminari dello Studio Axept dimostrano per la prima volta come una terapia più maneggevole favorisca la compliance del paziente e influisca positivamente anche sulle persone che lo assistono.
Nel dettaglio, lo Studio Axept (Alzheimer disease: eXamination of patiEnt comPliance and caregiver satisfacTion) è uno studio europeo osservazionale, trasversale, multicentrico, promosso da Novartis, che ha coinvolto per 5 mesi, da settembre 2010 a gennaio 2011, circa 2.000 pazienti, di cui 903 italiani, affetti da malattia di Alzheimer di grado lieve-moderato (MMSE – Mini Mental State Examination 18-26) e relativi caregiver afferenti a 40 UVA (Unità di Valutazione Alzheimer). I pazienti osservati erano in trattamento in monoterapia con ChEI (inibitore della colinesterasi) o memantina, da 4 a 6 mesi precedenti l’arruolamento.
Obiettivo primario dello studio era confrontare la compliance del paziente (riferita dal caregiver) e la soddisfazione del caregiver rispetto a due differenti formulazioni: orale o transdermica, entrambe in regime di monoterapia con ChEI o memantina.
I dati preliminari relativi a 754 pazienti arruolati e ai relativi caregiver indicano che il 63% dei pazienti e il 72% dei caregiver coinvolti era di sesso femminile, con un’età media di 78 anni per i pazienti e di 58 per i caregiver. Il ruolo di caregiver è svolto nel 95% dei casi da un familiare e nel 49% dei casi si tratta di un figlio o di una figlia che trascorrono mediamente con il paziente 12 ore al giorno.
Le interviste ai caregiver dimostrano che ben il 78% non è preoccupato per l’assunzione del farmaco per via transdermica e il 93% non ha alcuna difficoltà nella somministrazione del farmaco per via transdermica. Ed anzi, i punteggi ottenuti da una tale soluzione, attraverso l’assunzione dei farmaci tramite un apposito cerotto, sono risultati superiori a quelli della terapia orale sia dal punto di vista della compliance del paziente (9.50 vs 9.08) che della soddisfazione del caregiver (8.49 vs 7.82), costituendo pertanto uno spunto verso l’adozione di terapie capaci di conciliare l’efficacia della cura con la soddisfazione di chi deve applicarla od adottarla.