Ultimamente, da più parti, sta prendendo sempre più piede l’idea di sviluppare, come strategia preventiva di contenimento della pandemia di coronavirus, sistemi di separazione della popolazione anziana da quella più giovane. Non si parla, ovviamente, di ingabbiare o confinare in casa i soggetti più anziani e perciò più a rischio di contrarre il Covid-19 in forme più serie, ma di rendere obbligatori tutti quegli accorgimenti che permettano di scongiurare che un giovane contagi un vecchio.
L’idea, durante il periodo di massima diffusione della pandemia che tra marzo e aprile colpì pesantemente il Nord Italia, era già stata paventata dall’epidemiologa Jennifer Beam Dowd dell’università di Oxford, in uno studio secondo il quale uno dei motivi principali che avrebbero determinato un’ondata di decessi in Italia, andrebbe ricercato nelle frequenti interazioni fra nonni e nipoti, mentre nello stesso periodo in Israele il ministro della Difesa Naftali Bennett affermava esplicitamente che “la cosa più importante sull’epidemia, più del distanziamento sociale generale e più dei test a tappeto, è separare gli anziani dai giovani”.
La spiegazione sta nella maggiore gravità in cui la pandemia colpisce le fasce più anziane e deboli della popolazione. I dati italiani, per esempio, indicano che la mortalità da Covid-19 è sostanzialmente bassa per le persone con un’età inferiore a 60 anni (sotto l’1% e tocca un picco del 2,1% nella fascia 50-59 anni) per poi alzarsi in maniera significativa: 8,6% nella fascia 60-69 anni, 23,3% in quella 70-79, poco oltre il 32% per la fascia 80 anni-in su, per un numero totale di decessi di circa 34.500 sui 38.000 totali. Da qui, quindi, l’idea di attuare meccanismi di distanziamento indotto che mirino a limitare i contatti tra giovani e persone più anziane.
Anche i ricercatori dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) in un recente studio hanno avvalorato la tesi che se obbligassimo gli anziani all’isolamento protettivo salveremmo la vita di centinaia di migliaia di persone: “Urgente discutere di un lockdown selettivo per età. Soluzione complessa, ma è sbagliato scartarla: tenere a casa gli over 60 ridurrebbe le vittime a un decimo e allontanerebbe la chiusura generalizzata”.
È una strada sicuramente difficile da percorrere, specie considerato il fatto che misure di questo tipo coinvolgerebbero, a vario titolo, dal 25 al 30% della popolazione italiana, cioè tra i 15 e i 20 milioni di persone: dove potrebbero mai essere isolati in maniera efficace gli ultraottantenni, che rappresentano il 7,2 per cento della popolazione, o addirittura gli ultrasettantenni che sono il 17,1% degli italiani? Come scongiurare il pericolo che vengano contagiati dai parenti con cui vivono o che li assistono? Senza contare i dubbi morali di sottoporre gli anziani a limitazioni che valgano solo per loro, come il “restare a casa al sicuro” senza che diventi un’imposizione, sanzionabile a seconda dell’età, in attesa di un vaccino efficace, mentre il resto della popolazione continua a muoversi, a lavorare e a vivere.
Si spera che queste opzioni non siano necessarie. Tuttavia, mentre giorno dopo giorno si materializza l’ipotesi di un secondo lockdown nel nostro Paese, è bene iniziare a pensare che l’esigenza di convivere col virus potrà indurre, nei mesi a venire, a scelte strategiche che incideranno in maniera sensibile sullo scorrere della nostra quotidianità. E se cure e vaccino tarderanno ad arrivare, l’idea della divisione giovani-anziani, in futuro, potrà essere rilanciata per prevenire il ripetersi di chiusure generalizzate e riaperture cicliche.