I processi infiammatori fanno parte dell’arsenale di meccanismi che l’organismo ha a disposizione per difendersi dalla varietà di agenti e situazioni che possono arrecare danno alle cellule e ai tessuti. Nel caso dei tumori, però, questa regola, come molte altre, trova ampie eccezioni. Infiammazione e cancro quasi sempre si accompagnano. Da un lato, la presenza di cellule tumorali scatena la risposta infiammatoria che cerca di arginarne la crescita. Dall’altro il contesto infiammatorio getta benzina sul fuoco della malignità, alimentando e potenziando l’aggressività del tumore e la disseminazione delle metastasi. Non a caso, malattie infiammatorie croniche come il morbo di Chron, le epatiti o le infiammazioni dei polmoni dovute all’esposizione all’amianto, oltre a causare danni specifici, mettono il paziente di fronte all’aumentato rischio di sviluppare una malattia tumorale.
Anche se l’infiammazione è ormai riconosciuta come uno dei tratti salienti che caratterizzano ogni tipo di cancro, non è ancora del tutto chiara la mappa dei punti in cui processi infiammatori e tumorali si interconnettono e agiscono in concerto. Tantomeno si conosce l’identità di cosa dirige i diversi eventi che portano un meccanismo di difesa come l’infiammazione a diventare uno dei principali alleati del nemico numero uno dell’organismo, il tumore.
Il professor Licio Collavin del dipartimento di Scienze della Vita dell’Università di Trieste, e il suo gruppo di ricerca al Laboratorio Nazionale CIB – AREA Science Park di Trieste, sulle pagine della prestigiosa rivista scientifica internazionale Molecular Cell, hanno da poco svelato l’identità di uno dei fattori chiave di questa pericolosa alleanza. Si tratta di una proteina, chiamata p53, ben nota agli scienziati perché è tra quelle che si ritrovano più frequentemente mutate nei tumori (lo è in quasi la metà di tutti i casi di cancro). Collavin e i suoi collaboratori hanno scoperto che le forme mutate di questa proteina, presenti nelle neoplasie, non solo non sono più capaci di svolgere il proprio fondamentale ruolo a guardia dell’integrità del patrimonio genetico delle cellule, ma si comportano attivamente da pericolosi acceleratori della trasformazione e progressione tumorale. In che modo? Facendo sì, fra le altre cose, che le cellule tumorali interpretino i segnali molecolari dell’infiammazione come istruzioni a sviluppare maggiore aggressività.
“La proteina p53 mutata che si accumula nelle cellule tumorali – spiega Collavin – è in grado di neutralizzare un importante fattore che controlla i segnali molecolari generati dall’infiammazione. Inattivato questo fattore, le cellule maligne rispondono in modo eccessivo al segnale infiammatorio e cominciano ad esprimere un programma genetico che porta al potenziamento della loro capacità invasiva”. Togliere questo effetto della proteina p53 mutata nelle cellule tumorali significa renderle meno reattive agli input infiammatori e, quindi, meno aggressive. Ed è quello che tra le altre cose hanno dimostrato sperimentalmente i ricercatori.
La rilevanza della scoperta è enorme, considerato che capacità di invadere l’organismo e metastasi sono strettamente correlate e che le metastasi, e non il tumore primario, sono la principale causa di morte nei pazienti. “Non solo – precisa Collavin – poiché la proteina p53 mutata è un mediatore cruciale nel rapporto tra infiammazione e cancro, a seconda del contesto potrebbe essere sfruttata per spostare l’ago della bilancia e far tornare il sistema immunitario un alleato che favorisca l’eliminazione del tumore durante le terapie. Il nostro studio, quindi, apre la strada a nuove ricerche volte a sviluppare approcci terapeutici mirati, basati sullo stato mutazionale di p53 nei diversi tumori”.
Questo studio è stato realizzato grazie al fondamentale sostegno dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC).