Un lavoratore infartuato su 4 abbandona il lavoro, volontariamente o meno, entro 12 mesi dal rientro in azienda. Recenti studi hanno dimostrato che, negli ultimi anni, l’età media delle persone colpite da infarto si sta via via abbassando: in base ad uno studio condotto su circa 4.000 pazienti dalla Cleveland Clinic, pubblicato sulla rivista New England Medicine, l’età media si è abbassata dai 64 ai 60 anni, con una casistica sempre più ampia al di sotto dei 50 anni.
Di certo sono molte le possibili conseguenze di questo cambiamento sulla vita degli individui. Basti pensare che nel nostro Paese muoiono decine di migliaia di persone ogni anno proprio per infarto miocardico acuto. Gli infarti, fortunatamente, non sono però sempre letali: è stato dimostrato che la mortalità degli attacchi cardiaci acuti nel primo mese è compresa tra il 30 e il 50%. Il fatto che l’età media degli infarti stia scendendo porta, tra le altre cose, anche ad un progressivo aumento degli infarti in età lavorativa.
«Un infarto segna profondamente la vita di un individuo, anche dal punto di vista professionale» spiega Carola Adami, fondatrice e Ceo della società di ricerca e selezione del personale di Milano Adami & Associati, aggiungendo che «in molti casi gli infartuati hanno delle concrete difficoltà a proseguire normalmente la propria carriera lavorativa. Non è infatti raro incontrare persone che, ad un anno o due dall’infarto, sono state costrette a cambiare totalmente lavoro o, nel peggiore dei casi, a ritirarsi completamente».
E le parole dell’head hunter sono confermate da uno studio danese: stando ad un’indagine pubblicata su JACC e condotta da Laerke Smedegaard, della Herlev & Gentofte University di Hellerup su 22.394 infartuati, il 24% di essi finisce per abbandonare del tutto il lavoro entro il primo anno della ripresa lavorativa.
Un dato allarmante, soprattutto perché raccolto in uno dei dei migliori esempi di welfare state a livello internazionale. Pur non potendo contare su studi simili nel nostro Paese, infatti, sembra difficile poter fare di meglio. Va infatti sottolineato che di norma gli studi sul rientro lavorativo degli infartuati si fermano ad esaminare la percentuale dei lavoratori i quali , dopo essere stati vittime di un infarto, rientravano regolarmente a lavoro. In questo caso, però, si è voluto allungare lo sguardo, osservando cosa succede nei primi 12 mesi dal rientro, ed è qui che esce il dato allarmante: 1 lavoratore infartuato su 4 abbandona il lavoro, volontariamente o meno.
Come ha sottolineato l’autore della ricerca Smedegaard, «il fatto di riuscire a mantenere il proprio posto di lavoro dopo un infarto è un fattore importante per la qualità di vita, per l’autostima e per la stabilità economica dell’infartuato».
Data l’ampiezza di questo fenomeno, in effetti, questa disoccupazione di ritorno andrebbe studiata maggiormente, andando ad analizzare nel dettaglio quali sono i motivi precisi che spingono queste persone ad allontanarsi dal proprio lavoro precedente e, in certi casi, ad allontanarsi dall’intero mercato del lavoro.
«Di certo questi dati devono farci riflettere: se ormai da anni si parla dell’accumulo di stress tipico di certe professioni come ulteriore fattore di rischio di infarto, ora dobbiamo iniziare a pensare non solo alle cause, ma anche agli effetti che un infarto può avere sulla vita professionale di una persona» ha sottolineato Carola Adami.
Non a caso lo stesso Smedegaard ha affermato che «la riabilitazione cardiaca successiva ad un infarto dovrebbe puntare anche ad aiutare i pazienti a mantenere le proprie capacità lavorative a lungo termine».