Se per tutti “gli altri” (vicini, parenti, amici, ecc) il ricovero in una Residenza Sanitaria di un anziano parente (genitore, nonno, coniuge o altro che sia) può sembrare una soluzione ottimale, che allevia solamente la nota ed effettiva condizione di stress a cui un familiare è sottoposto se costretto ad accudire, dal punto di vista psicologico, non è così semplice come può sembrare. Infatti, il ricovero in un Istituto di un familiare è, spesso, una scelta fatta per necessità dalla famiglia che lo circonda dopo svariati tentativi di trovare soluzioni diverse (es: inserimento in centro diurno, assunzione di badanti, ecc..).
Esistono casi, purtroppo sempre più frequenti, in cui i figli devono separarsi dai genitori per altre cause che non siano la morte: e questa separazione non può non essere causa di ansia e di forti sensi di colpa. Nei casi in cui esistano degli impedimenti per poter accudire personalmente i propri cari, non resta che affidarli ad altri che lo possono fare, e il legame virtualmente si rompe anche se non del tutto concretamente. Ed è “normale” che i figli si sentano in difetto e penseranno a posteriori ad altre mille soluzioni, sentiranno che quella mamma e quel papà non sono più gli stessi di prima.
Come ci spiega bene Palma Minervini, molto spesso il fantasma con cui un figlio si confronta è quello abbandonico, nel senso che il ricovero del genitore risveglia un profondo senso di colpa come se si trattasse di un abbandono a danno dell’anziano. Spesso la devozione filiale porta i figli a sacrificare molto di sé e della propria famiglia nel tentativo di contrastare questa pesantissima angoscia di danneggiamento, posticipando a lungo la decisione del ricovero. Questa difficoltà ad affidare il genitore alle cure di altre persone, seppur riconosciute competenti è anche legata alla difficoltà del figlio, spesso sostenuta anche dalla difficoltà del genitore, a compiere un nuovo reciproco movimento di separazione, avvertito particolarmente minaccioso da parte di entrambi, poiché si colloca sul limitare della vita. I genitori conservati nel mondo interno del figlio solo o prevalentemente come onnipotenti sono anche genitori altamente idealizzati, che non possono invecchiare, ammalarsi e morire. Il senso di colpa di questi casi non è solo legato al pesante destino dell’assumere dolorose decisioni per il proprio genitore al posto suo, ma è anche legato diabolicamente al desiderio inconscio che esista in qualcuno, se non in se stessi, una magica forza onnipotente che tuteli da ogni sofferenza, avvertita come insostenibile. La scoperta inammissibile che ciò non esiste fa sentire molto ferito chi ardentemente nutre questa illusione; su tale ferita si sparge come sale il senso di colpa per riconoscersi all’altezza della situazione. Tali dinamiche psicologiche si presentano in un modo molto articolato, si combinano in un intreccio molto peculiare diverso da persona a persona.
Anche secondo una lettura basata sulla teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1972; 1975, 1989), le persone della terza generazione, con le loro aspettative, credenze e modalità di chiedere e dare supporto – entrando nel gioco relazionale intergenerazionale creatosi – alleggeriscono o appesantiscono il carico funzionale ed emozionale dei più giovani. La complessità che fonda la costruzione relazionale di situazioni di cura trova, quindi, radici nella storia evolutiva di ogni singolo partecipante (sia esso l’accudente o colui che è da accudire) e si inserisce nel momento storico esistenziale da cui non potrà prescindere. Di conseguenza, la specificità della cura intergenerazionale dei grandi anziani andrà a definirsi nello specifico tipo di rapporto che segna, nel declinarsi nell’azione, le rappresentazioni cognitive di sé e di sé con l’altro (Pezzetti, Barone & Mattei, 2005).
Del resto già Taccani nel 1994, aveva messo in evidenza come la famiglia, nel percorso che porta all’accettazione/adattamento alla malattia di un proprio familiare, può attraversare varie fasi intermedie. Dalla negazione, in cui il familiare tende a scusare gli atteggiamenti dell’anziano attribuendo i cambiamenti al normale processo di invecchiamento si passa al coinvolgimento eccessivo (in cui i familiari cercano di compensare i deficit dell’anziano man mano che il declino si manifesta più chiaramente). Si vive poi la collera – in cui i familiari sperimentano sentimenti di rabbia per l’onere fisico, le difficoltà e le frustrazioni derivanti dal comportamento dell’anziano – per giungere ai sensi di colpa che si accentuano nel momento in cui si decide di affidare l’anziano ad una Residenza Sanitaria o alle cure di una persona esterna alla famiglia.
È a questo punto importante provare a leggere il fenomeno degli ingressi in Struttura cercando di coniugare esigenze e aspettative sia dei familiari che dell’istituto prescelto per accogliere il proprio caro.
Da una rassegna critica (Patruno &Savarino, 2009) emergono che le aspettative iniziali dei familiari sono essenzialmente due. Da un lato la famiglia si aspetta di veder curato il proprio caro come a casa e dall’altro il desiderio, molto più inconscio, di poter mantenere la maggior parte delle abitudini di vita e di relazione che si avevano in casa. Aspettative queste che spesso si scontrano con la serie di regole che l’istituto dà e che possono venire vissute come un’espropriazione o come una negazione del diritto a vedere e a curare il proprio caro come si desidera e come era auspicato.
Al contrario proprio la chiarezza delle regole e delle procedure di assistenza è elemento fondante per un rapporto scevro di incertezze e fraintendimenti. “Né la famiglia né l’istituto sono onnipotenti e capaci di rispondere a tutti i bisogni dei nostri anziani: insieme si possono costruire percorsi di assistenza che nel tempo possono modificarsi ed insieme va riconosciuta l’impossibilità di soddisfare completamente il vecchio, che si mantiene vivo proprio in questa ricerca continua del rapporto, anche contraddittorio ed ambivalente, con coloro che ama” (Paturno&Savarino, 2009).